Con la poca conoscenza del Mondo che si può avere a 24 anni nel aprile del 1998 parto per il Tibet: quello che sarà uno dei miei viaggi più belli e soprattutto l’esperienza che mi farà innamorare del oriente. Se esiste il mal d’Africa, grazie a questa avventura sono rimasto contagiato dal mal d’Asia. La scelta di questa destinazione è frutto di un caso, avevo appena terminato di leggere “Flash. Katmandu il grande viaggio” di Charles Duchaussois e mi ero preiscritto ad un viaggio in Nepal con Avventure nel Mondo (in seguito AnM). Come spesso accadeva però la scelta delle destinazioni sul catalogo erano molteplici ma specie in periodi di bassa stagioni pochi si confermavano; a pochi giorni dalla partenza arriva la telefonata da Roma che comunicava che il mio viaggio non sarebbe partito e in alternativa mi davano alcune mete alternative. Lasha e oltre è appunto il nome del viaggio prescelto tra quelli propostomi.
Per entrare in Tibet, almeno nel 1998, o si volava dallo Yunnan in Cina oppure da Katmandu in Nepal; noi siamo atterrati nella capitale nepalese e da qui via terra abbiamo raggiunto Lasha. Soluzione non ottimale, ma questo lo abbiamo poi scoperto in seguito.
Nella valle di Katmandu siamo rimasti i primi giorni, necessari al coordinatore per sbrigare le formalità d’ingresso in Cina e a me per ambientarmi; più che i posti visitati che sono stati interessanti e nei viaggi seguenti ho imparato a conoscere meglio; ho scoperto una vita diversa, fatta di gente che vive per strada, di donne che al mattina vanno con la brocca in testa a prendere l’acqua alla fontana aspettando prima che una mucca randagia termini di abbeverarsi. Vedere ad ogni angolo della strada un tempietto o semplicemente un lingam a cui i passanti offrono dei fiori e gli versano sopra del latte, il tutto in mezzo al traffico fatto di tuk tuk, di biciclette di carretti tirati da buoi o da persone.
Il primo giorno di viaggio su di un furgoncino a nolo scorre via attraverso le campagne tra le risaie e poco alla volta si inizia a salire per arrivare sotto un torrenziale temporale a Kodari, villaggio di confine con il Tibet a circa 2.300mslm. Il passaggio del confine viene fatto a piedi attraversando il ponte dell’amicizia e poi fino al villaggio Cinese di Zhangmu su di un camion telonato per ripararci dalla pioggia. Fortunatamente una volta arrivati in guest house il tempo migliore e ho la possibilità di incontrare in giro per il paese i primi tibetani di etnia sherpa con il caratteristico viso bruciato dal sole di queste quote. La guida cinese che ci ha accolto alla frontiera ci ha avvisato che in quota la strada è interrotta da una slavina e che ci vorranno ancora giorni prima che l’esercito liberi interamente la strada. Unica possibilità per proseguire il viaggio e di arrivare con mezzi di fortuna alla slavina e poi attraversarla a piedi… i tornanti che curva dopo curva scaliamo in piedi su un cassone di un camion disegnano sempre più percorsi tortuosi e le cime delle montagne si fanno sempre più vicine e il cielo dopo il temporale del giorno prima si è fatto di un blu brillante. La pista è chiusa a circa 3.500m slm e non senza faticare il giusto e con l’aiuto di 4 portatori superiamo la valanga e prendiamo finalmente possesso del nostro furgone che ci accompagnerà per il resto del viaggio. In questa prima giornata di viaggio vero saliamo ancora fino al villaggio di Nyalam a circa 4.500m slm dove sostiamo e finalmente si sgranchiamo le gambe e incontriamo le prime genti di montagno. Nyalam è soprattutto famosa perché poco distante dal villaggio si trova la grotta in cui si pensa abbia passato parecchi anni della sua vita nel XI° secolo Milarepa (filosofo buddista tibetano); al suo interno ci raccontano che sono ancora visibili le impronte delle sue mani sul soffitto della grotta. Ma la giornata non è ancora giunta al termine e proseguiamo quindi per il primo passo a altre 5.000m slm Tong La e in successione il Lalung La. Il maldi montagna un po’ inizia farsi sentire con inappetenza e mal di testa, raggiungiamo finalmente il primo paese vero e proprio a Tingri a circa 4.300m slm.
Siamo a ridosso del campo base del Everest o come lo chiamano in tibetano Chomolungma (madre dell’universo) o Sagaramāthā (in Sanscrito “dio del cielo”). Il paesaggio è desertico, un immenso pianoro con al orizzonte le più alte montagne al mondo; non incrociamo molti veicolo, perlopiù a ridosso dei villaggi contadini con motocoltivatori di fabbricazione cinese e qualche carretto. Nei campi non è raro trovare ancora chi dissoda il terreno con l’aratro trainato da Yak. Di insediamenti nomadi non ne vediamo eccezion fatta per un accampamento sulla strada verso Gyantse. Nei centri che incontriamo lungo la pista è facile vedere sui muri di calce bianca delle abitazione “pizze” di letame attaccate alle pareti ad essiccare al sole per poi venire utilizzare come combustibile per cucinare e scaldarsi.
Arriviamo a Gyantse, posta a 4.000m slm di pomeriggio e qui riusciamo a visitare il mio primo monastero tibetano, il Monastero Palkhor Chode; il cui ruolo è unico nel buddismo tibetano in quanto ne rappresenta contemporaneamente tutte e tre le sette: Gelugpa, Sakkyapa e Bhuton. Normalmente i monasteri sono circondati da un muro di recinzione con una o più porte d’accesso, la posizione è solitamente su di un altura che domina il fiume o il villaggio. All’interno delle mure ci sono diversi edifici e in quello principale che normalmente si celebrano i riti, l’ingresso è consentito senza problemi a tutti previa la rimozione delle scarpe. All’interno tutto è avvolto dalla penombra e le sole luci provengono dalle lampade alimentate dal burro di yak; i monaci durante le funzioni stanno seduti su dei tappeti con in mano strisce di fogli rettangolari con su scritte le preghiere che ripetono come un mantra aiutati dal suone di alcuni tamburi e strumenti a fiato. Quello che colpisce è la maestosità dei monasteri e in contrapposizione ai pochi monaci presenti, segno purtroppo tangibile del oppressione cinese. Altro segnale di come questo paese stia cambiando è sempre la maggior presenza di cinesi di etnia An, riconoscibile per la carnagione più chiara; il commercio è quasi tutto in mani loro e i ristoranti propongono ormai quasi tutti piatti cantonesi… il che però non è così male per i noi turisti stufi di momo (ravioli cotti al vapore) e tsampa (bevanda a base di te farina di orzo e burro di yak).
Raggiungiamo Lasha (che significa “trono di Dio”) situata a 3.650 m di altitudine nella valle del Kyi Chu dopo sei ore di viaggio. Ad accogliere i viaggiatori in arriva nella capitale su una roccia lungo la strada troviamo la raffigurazione del Buddha e quello che ho imparato a conoscere come la preghiera per eccellenza dei buddisti tibetani, la scritta ॐ मणि पद्मे हूँ oṃ ma ṇi padme hūṃ. In questo viaggio già dal Nepal ho imparato a riconoscere questa frase scritta sulle ruote di preghiera che i pellegrini fanno girare all’ingresso dei luoghi sacri e sulle bandiere appesa sui più alti passi. Entrando in città la presenza dei cinesi si sente sempre di più fino a manifestarsi inequivocabilmente con una pacchianissima statua di due enormi yak d’oro posti a pochi passi dal palazzo del Potala, che fu la residenza principale del Dalai Lama fino a che Tenzin Gyatso (14° Dalai Lama) fuggì a Dharamsala in India in seguito all’invasione cinese del 1959. Oltre al palazzo del Dalai Lama un altro imperdibile palazzo da visitare più volte cercando di arrivare di volta in volta in orari diversi è il Jokhang, il tempio più sacro di tutto il Tibet. Al suo interno si trova una statua in oro del Buddha Sakyamuni e numerose cappelle illuminate da fiammelle alimentate dal burro di yak. Quando si arriva nella piazza del Barkhor antistante al Jokhang non bisogna farsi prendere dalla frenesia di entrare subito al suo interno o di salire sui terrazzi sovrastanti, ma aspettare e prendersi un po’ di tempo in un angolo per assistere alla kora intorno al edificio. La kora è una processione rituale che i fedeli compiono intorno ai monasteri o ad altri luoghi sacri (come il Monte Kailash), i fedeli partono anche dai villaggi più sperduti del Tiber a piedi per venire qui in pellegrinaggio.
A pochi passi dalla capitale si trovano diversi interessanti santuari tra cui il più grande della scuola Gelug, il monastero di Sera, residenza del Panchen Lama (ritenuto la personificazione di Amitabha, il Bodhisattva della Conoscenza). Quello che ha mantenuto meglio lo spirito tibetano è senza dubbio il monastero di Ganden a quasi 4.500m slm, che purtroppo è stato quasi interamente distrutto dall’artiglieria del esercito cinese… Non ancora stufi di monasteri e pellegrini gli ultimi giorni di permanenza a Lasha vengono imiegati per vedere quello che era la dimore dell’oracolo del Dalai Lama, il monastero di Nechung e successivamente quello di Drepung.
Prima di rientrare in aereo in Nepal un ultima sosta la merita il forte di Yambulagang che domina dal alto la valle dello Yarlung.
Un consigli per chi vuole affrontare un viaggio in Tibet, a differenza di quanto fatto da noi, arrivare a Lasha in aereo da Katmandu e qui ambientarsi i primi giorni al altitudine e successivamente iniziare a visitare i centri intorno a quaote sempre più alte e quando si inizierà la lunga strada del rientro via terra i passi sopra ai 5.000m slm non vi daranno fastidio.
Ottima esposizione descrittiva la quale permette al lettore di immergersi come un viaggiatore virtuale nei luoghi documentati con sensazioni profonde. In attesa di una prossima presentazione auguro buon viaggio
Bellissimo viaggio Daniele!!